PARLÀ-M LU NDIALÈ-TT! Parliamo in dialetto!

Nella nostra società postindustriale, in rapida e profonda trasforma­zione, contrassegnata dal conformismo della spersonalizzazione, dalla caduta dei valori e con la sostituzione ad essi di pseudovalori o di di­svalori, domina sovrano un bombardamento informatico da parte dei mezzi massmediali, che induce sempre di più l’uomo a smarrire la bussola dell’auto-rientamento, e, quale «essere economico» ad inserirsi e a inte­grarsi a pieno titolo nel vortice del consumismo sempre più avvolgente e distruggente.

L’uomo, così, quest’uomo disumanizzato, alienato e disaffezionato verso tutti e tutto, vive la sua vita in proiezione di un’apertura completa, a livelli europei prima e planetari o economici poi.

Invece l’essere ha bisogno di una profonda introspezione per sco­prire la sua vena inesauribile di spiritualità, per ritrovare dentro di sé la sua vera, come dicono, identità, fatta di sensibilità e di fantasia, legata al senso pratico, all’inventiva, per ritrovare la sua luce, la sua cultura, il suo passato; suo, perché gli appartiene.

La televisione, peresempio, più o meno spazzatura, con la sua lingua nazionale sta sradicando dalle coscienze questa identità e sta livellando tutti a sua immagine, senza angolosità, senza connotazioni particolari, senza spiritualità, ma soprattutto senza il rispetto per il diverso.

Non serve attendere passivamente ciò che gli altri ammanniscono, ma bisogna sforzarsi a recuperare il bambino che è dentro di noi, quel bambino che è vita, amore, bontà, genuinità, espressione.

In questa nostra Italia con una forte fisionomia localistica, dove la cultura non è solo d’élite, dei classici antichi e moderni, ma anche so­prattutto quella popolare con le tradizioni, i costumi, il folklore, gli atteg­giamenti palesi e sotterranei, riscoprire il dialetto significa riscoprire una

 

comunicazione ed una espressione viva, sincera, completa, piena e ricca di messaggi di benessere sotto il profilo polidimensionale.«… nel dialetto c’è un’anima che ha avuto ed ha atteggiamenti suoi, vivaci ed originali; il dialetto è ricco e plastico quanto ogni altra lingua, ed ha, come ogni lingua, la sua bella letteratura popolare e d’arte…» È ciò che ha sostenuto opportunamente il Lombardo-Radice in Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale — Ed. Sandron, Firenze, 1950, pagina 184 —.

Attraverso il richiamo alla memoria del linguaggio dei nostri padri si riscoprono pure quei valori intramontabili della famiglia patriarcale e della società agricola, in definitiva della civiltà contadina che tanto ha contribuito a creare le basi del tempo moderno.

È il binomio tradizione-presente che dovrebbe sempre prevalere, perché un mondo senza storia è un mondo senza se stessi, senz’anima, senza ricchezza. La storia è testimone dei tempi, «vita della memoria, maestra di vita», ambasciatrice dell’antichità.

La nostra umanità, o, spesso, disumanità, ha dato troppe spallate al passato, ha voluto purtroppo rigettare la storia. Ora invece bisogna coniugare passato e presente per la proposizione del futuro migliore e occorre quindi affondare lo sguardo nel mondo dei nostri padri e, pri­ma di tutto cogliere, attraverso la riscoperta e la appropriazione di un adeguato linguaggio, senza eufemismi, il patrimonio di spiritualità che contraddistingueva la loro vita terrena.

Mi pare opportuno ricordare che si possono studiare e seguire le usanze dei lavoratori della terra pur senza essere georgòfili provetti e ciascuno riceverà in soddisfazioni molto di più della propria attenzione prestata al mondo contadino.

È anche necessario riannodare le fila della fratellanza e della solida­rietà fra gli uomini, incominciando tra quelli del comune luogo natio; è necessario gettare un ponte di collaborazione anche con i nostri fratelli

 

costretti a vivere lontano per il lavoro; è necessario che ciascuno si tuffi nel passato, riannodi i legami con la nostra tradizione e viva con ¡consimili in un’armonia di intenti, di promesse e di proposizioni di vita, senza mai perdere di vista le comuni radici culturali.

Ognuno di noi vive fra una lingua che parla e un’altra che impara sempre meglio a percorrere e, riscoprire la prima significa far emergere la propria infantilità, la pienezza della propria esperienza spirituale, la bontà di un mondo che altrimenti si sbiadisce, si appanna, si annulla per cui si perde la percezione dei vari colori che abbelliscono la terra, il cielo, l’anima.

Il nostro dialetto si colloca al centro, anche geografico, fra il napole­tano, l’irpino, il cilentano, il lucano, il pugliese settentrionale e il calabrese settentrionale a grandi linee essenziali, ma è ricco di voci e di pensieri, idee, nozioni squisitamente locali.

Le peculiarità espressive del dialetto caggianese, con tutte le precau­zioni per evitare di definirlo totalmente e tipicamente locale, sono tuttavia di grande valenza, perché riescono a tradurre, attraverso il linguaggio dell’immagine, concetti succosi, densi di significato e non facilmente riscontrabili nella lingua madre.

Ci sono parole che hanno tanti significati mentre altre, oggi, dicono appena qualcosa. Ci sono voci che derivano dal greco o dal latino, dall’a­rabo o dall’armeno, altre dallo spagnolo o dal francese o dal mondo anglosassone: tutte parole da salvare.

Molte voci e molti detti antichi, frasi, proverbi, sentenze, ecc. sono state ovviamente assimilate, nel tempo, da altre culture, non senza però rivestirsi dello spirito inconfondibile della mentalità particolare e della fertile inventiva della gente del luogo.

Le inflessioni dialettali sono particolarmente utili in quanto intro­ducono in un frasario di un mondo che è molto semplice, direi ancora pastorale, bucolico, forte e nel contempo tollerante, nella conduzione di un antico modello di vita, che, alla fin fine a noi oggi sembra, purtroppo, di aver già archiviato, e senza di averlo vissuto!

Il frasario locale e i detti antichi sono tipicamente caggianesi, mentre alcuni modi proverbiali venuti da lontano per le correnti migratorie alla ricerca di un benessere migliore e per l’interscambio con lucani, irpini, na-poletani,cilentani, pugliesi ed altri, quelli che chiamiamo «universali», co-nosciuti cioè anche altrove, trasformati a volte, adattati alla sensibilità dei propri momenti di vita, rivestono spesso una connotazione eccezionale, poiché seguono, come accennavo, un’anima popolare che si trasmette per generazioni e che è densa di significatività, di saggezza, di didascalìe forti e pregnanti, di modalità comportamentali improntate sulle leggi dell’equità, della giustizia e sull’etica della convinta solidarietà.

Le voci del glossario, come si vedrà, non si possono tutte racchiudere entro confini prestabiliti, ma si deve sempre considerarle, in un certo modo, di Caggiano “e dintorni”. D’altra parte, neanche cinque secoli fa o prima ancora, né mai, credo, ogni paesino poteva essere rigidamente serrato nel proprio particolare linguaggio. Per fortuna!

Questo «repertorio lessicale»,spero riccoeaccurato, rappresenta anche lo spunto per un’amena lettura interpretativa dei vocaboli presenti nella prima parte del libro, nonché l’opportunità per consolidare ed aumentare la nostra alimentazione linguistica, un’alimentazione fatta di modalità non soltanto dialettali, sia comunicative che espressive.

Nella compilazione ho evitato di proposito un lavoro etimologico, ben sapendo pure che sarebbe stato affascinante, ma poi non avrei potuto fare a meno di citare «orpelli» che sarebbero stati di intralcio alla «volgarizzazione», con rispetto parlando,dell’intera opera, intendendo io invece divulgarla nel senso di renderla il più semplicemente accessibile a ciascuno.

Ho anche cercato di non utilizzare le parole dialettali che sono soltanto
italianizzazioni: a questo proposito mi piace dire che l’unico momento grottesco di quella parte della mia ricerca, quella dal vivo, quando anda­vo carpendo sulle labbra o rubando neN’aria, fra le persone più anziane e tradizionaliste, è stato il volermi qualche volta per forza presentare le voci antiche nella veste più moderna possibile: il contrario di ciò che cercavo… Ma poi ogni termine ha trovato il suo posto e nel significato, quanto meno, il più presumibile.

Nel frasario, ciascuna frase dialettale è seguita prima dalla traduzione letterale e quindi da una didascalia, mentre nel glossario, accanto a cia­scuna voce si trovano i significati relativi.

Per il progresso umano e tecnologico che ha pervaso la civiltà conta­dina sono andati naturai mente creandosi alcuni neologismi che io chiamo «neologismi dialettali», come, per esempio:

il beccaio

l’addetto ai trasporti fune-

furgoncino APE o simili l’idraulico

tedesco. Eccetera- che esprimono il significato di mestieri, cose, aggettivi inesistenti fra noi fino a pochi decenni fa e che, appena posti in essere hanno assunto il battesimo del nome dialettale, localistico.

È l’impronta dialettale che si rinnova, che non vuole estinguersi. Dev’essere, credo, una forma naturale di compensazione pertutte quelle voci antiche, mai più trascritte, mai più ripetute, probabilmente non ancora uscite dalla funzionalità comune, voglio dire non ancora definite, a modo loro, degli arcaismi e tristemente estinte nelle notti dei secoli oppure è

 

davvero lo spirito localizzato dell’antico che non vuol morire.

Mi piace però, d’altra parte, ricordare che ogni tanto notiamo che la lingua comune, ¡vocabolari si arricchiscono di termini di origine dialettale così come è stato per BANCARELLA, COPPOLA, FONDELLI, PAGLIETTA, PANZAROTTO, PIZZA, PROVOLONE,TARALLI, ecc.e,di recente,TAMARRO (vedi Zingarelli ’94).

Mi si chiederà come ho fatto a raccogliere le migliaia di parole del repertorio… Ebbene, ho ascoltato una parola di qua, una conversazione di là, ho letto antichissimi atti notarili, ammuffiti manoscritti, ho consultato e confrontato dialetti del nostro mezzogiorno e poi ho cercato anche di ricordare le voci dell’infanzia, quelle che affiorano alla mente quando meno te le aspetti.

A questo punto è necessaria qualche nota, qualche avvertenza sulla pronunzia.

Comunemente le parole di alcuni dialetti vengono presentate in una costellazione di segni di interpunzione, di accenti gravi o acuti, virgolette, dieresi, cediglie, apostrofi, simboli fonetici per vocalizzazioni chiuse o aperte o per nasalizzazioni, per consonanti dure o dolci o sonore o sorde, ecc. tali da confondere anzicché aiutare la lettura.

Rinuncio quindi a tutti quei segni soprasegmentali che avrebbero portato forse precisione scientifica, ma nello stesso tempo avrebbero creato difficoltà ortofonetiche se non proprio incertezze nel lettore non specialista. E poi ho sempre ritenuto che tanti segnali stradali messi in­sieme confondono l’automobilista: ne occorrono pochi, ma buoni.

Ciò premesso, voglio ricordare cinque o sei punti:

  1. pongo solo l’accento grave sulla sillaba tonica di ciascun vocabolo

(ABBRÈNDA, CALANDRA), perché la cadenza del nostro dialetto

tende ad evidenziarla. Sono rarissimi due accenti in un unica parola

(BUSCÌ-ÀRD, CACCÌ-À);

  1. il trattino,o unisce due parole o separa una parola in due o tre parti pro-ponendocosì una o due brevissime pause (FUR-TÀ-N,GRUZZÀ-T);
  2. si sa che la lettera «h» non rappresenta suono, ma è necessario usarla per dare una certa aspirazione palatale o laringale, se premessa a consonante più che a vocale (HRANGÈ-DDA, HRÀSTA, FATHATÒ-R);
  3. si può trovare il raddoppio di consonante come pure il raddoppio di vocale anche all’inizio di parola come alla fine (SS-BBÀ-GL1, MAN- DACÈ-TT, RAÀ);
  4. l’apostrofo nel contesto o alla fine di una parola, oltre a svolgere la funzione che gli è propria, vuol essere una mezza vocale finale, una vocale appena accennata (C’CÀ-TA, ÒGN’, CIÙCC’);
  5. il digramma «SC» se è separato dal resto della parola con un trattino, viene pronunziato con un unico suono, a sé stante, come in scivolo, scena, ecc. e poi si continua a leggere ciò che rimane della parola, dopo quel trattino. Esempio: SC-CATTÀ si legge SC come abbiamo già detto e poi di seguito si legge CATTÀ, e il significato rimane quello di crepare.

Moltissime parole del nostro dialetto terminano con consonante. Detta consonante bisogna farla ben sentire nella pronunzia (FRAIATÙ-R, PARZIÒ-N, RUNÀ-T). C’è qualche difficoltà come quella di rendere, per esempio,graficamente la possibilità di far leggere «CHI» di CFIÌ-N(=pieno): sarà letto sempre come CFHI di CFHl-L (=chilo) se non si spinge la lingua in avanti, fra i denti, ma senza esagerare e con la bocca socchiusa.

Nel dialetto caggianese non viene notata la differenza tra le vocali chiuse e quelle aperte, poiché tutte hanno un suono abbastanza largo.

Complessivamente non ci dovrebbero essere perplessità o incertezze rilevanti, oltre a quelle poche già segnalate.

 

Il lavoro compiuto, oltre a voler essere un piccolo contributo vernaco­lare per la conservazione del dialetto, non ha grandi ambizioni o pretese inafferrabili, ma solo lo scopo di «conoscere per conoscersi» e di «co-no- scersi per conoscere», nonché il desiderio di far riemergere in tutta la sua potenza e genuinità quella polla di originalità e di anticonformismo che è dentro di noi. Si dice che anche Gesù parlasse in dialetto, per quanto universale sia stato il suo messaggio e rimane di espressione dialettale quanto di più intimo e di più autentico è in noi: non solo la manifestazione del sentimento dell’Amore, non solo l’imprecazione, ma anche la preghiera immediata e sincera viene lanciata nell’idioma primo, semplice, originario della nostra vita: non invano, quando, al contrario, si è ricercati nell’espri- mersi, qualcuno ammonisce: «MA PÀRLA CÒ-M T’À FFÀ-TT MMATA!»

Facendo questo viaggio nel tempo alla ricerca del dialetto perduto mi sono accorto, in una appassionante indagine fra voci lontane, che ogni parola ha un fascino particolare, una sua storia, anche e soprattutto quella di étimo incerto se non addirittura ignoto.

È stato un viaggio a ritroso che mi ha soddisfatto, perché ritengo di averlo vissuto in una realtà dove «VÌE-N A VÌ-ETT» voleva dire veramente «ToRNA PRESTo» e dove «BÒN BIÀ-GG» voleva significare veramente «BUON VIAGGIO».

* * *

Consapevole di aver reso omaggio ad un mondo che scompare, spero di essere ricompensato con la benevolenza per aver portato a termine il presente lavoro e accetto la massima apertura, i suggerimenti per le ine­vitabili omissioni, gli spunti critici che altri mi vorranno proporre, anche per una eventuale rielaborazione o riedizione dell’opera.

27 Settembre 1996, Raffaele Vecchio